martedì 28 settembre 2010

Tre aforismi brevi.

Non si colgono gli aforismi del poeta, mentre il musicante di allegre ballate tiene il mondo tra le mani, e lo fa girare veloce. Scrivere di una luce lontana, che vibra nell'aria in una notte soltanto, e si diventa tristi a vederla distante, a doverla salutare con la mano. Cantare, in fiori di allegria, mentre sono le miserie a germogliare, tra una nave che lascia il porto e un silenzio che sfuma.

Che stanchezza questa vita. Questa vita che non tratta tutti allo stesso modo. Avevo capito qualcosa di nuovo, durante quel viaggio. Il veleno di un fallimento che sembra rodere il fegato, potrebbe essere nettare per chi il fegato non ha mai potuto averlo.

Se soltanto qualche anno fa, fossi stato più vecchio, adesso forse non sarei nella mia stanza a scrivere. Si è sempre immaturi, tra le circostanze che accadono. Niente accade quando dovrebbe accadere, e noi, che amiamo volgere lo sguardo indietro, sempre più indietro, siamo giudici di noi stessi, severi e improvvisati.

La marea

C'è chi è solito fare della propria vita, una stravagante commedia. Fingere rigogliose felicità di giorno, e ci si stringe poi, nel languore della notte. Non so bene come, ma questa corrente inesauribile ha preso anche me, e non mi lascia più. Ha preso tante giovani vite, vite che scivolano tra forze incotrollabli, incapaci e affrante. Per favore, qualcuno dimentichi in un solo attimo la propria cattiveria. Qualcuno mi liberi, qualcuno che sia già libero, qualcuno che sia già riuscito a mettersi in salvo. Ma nessuno è libero, l'umanità esiste da quando esiste questo mare in tempesta. Gli uomini nascono nel freddo avvilente di queste acque, di questo oceano che è la vita. Il mare trascinerà anche te, devi cedere, se non vuoi andartene, se non vuoi tristemente finire. Respira, non appena il freddo cessa di torturarti il viso. Respira, nei brevi attimi di quiete che ti saranno concessi. Respira, e forse non morirai ancora. Forse non morirai nel biasimo di chi rende tragicamente grazie, nonostante tutto.Ringrazia a tua volta, per questa vita che non finisce ancora, che si spera non finisca mai. Ringrazia, per questa normalità che in silenzio ti avvolge, e che non viene mai via. Fingere, per andare avanti, per dimenticare la forza della corrente, per continuare a vivere. Fingere, in questi impegni, tante cose importanti da fare, tante cose giuste da dire, da pensare. Perchè avete bisogno di normalità. Avete un disperato bisogno di normalità. Quel bisogno frustrante, mai soddisfatto, di ignorare la tramenda natura dell'oceano. Si ha l'impellente bisogno di fingere, di fare della propria vita, una stravagante commedia. Ma non vi sarà alcun lieto fine, e questo lo sappiamo già.

Vorrei vederti bruciare.

Vorrei vederti bruciare.
Sospesa a mezz'aria
in un vorticoso abbraccio di fiamme,tenebre e sangue.
I capelli color ebano ti coprono il viso
sporco di menzogne e fuligine di analogo colore.
Il tuo viso
ormai privo di orecchie,lingua ed occhi.
Quegli occhi in cui è così facile perdere se stessi.
I miei,di occhi,sono solo per te
incantati dal tessuto rosso
che ti avvolge e ti accompagna in questa danza della morte.
Brucia per me
continua a contorcerti
non ti fermare
è così poco il tempo che mi resta.
Sei così bella tra le fiamme.
Poi il risveglio.
La gravità non è mai stata tanto forte
i vermi che solitamente banchettano sulla mia nuca
pesano quanto macigni.
Non riesco a sollevare il capo
il volto si colora di fango
la terra ha un pessimo sapore.

domenica 26 settembre 2010

Gli inquilini.

Salivo le scale lentamente, regolando l'affanno, una fitta allo sterno, la mano sinistra poggiata al muro a buccia d'arancia.

Fuori era caldo, il sole delle tre del pomeriggio sembrava bruciarmi la pelle, mentre fumavo poggiato ad un muretto.

Appena rientrato nel palazzo la frescura delle mattonelle e dell'umidità mi rinfrancarono, mi diedero la forza necessaria per affrontare la salita.

Scendere da casa per fumare si rivelava ogni volta più umiliante, passavano gli inquilini e sorridendomi pensavano "povero stronzo, ancora sottomesso ai genitori, incapace di

affermarsi, di fumare in casa, come ogni cristiano".

Io leggevo il loro sorriso e sorridevo a mia volta creando un certo tipo di complicità, il mio sorriso era la resa e l'accettazione della mia degradante situazione.

Speravo che non passasse nessuno comunque, speravo di fumare la mia piccola sigaretta in tranquillità, godendomi quel retrogusto di caffé stantio, magari riparandomi un po' dal sole.

Quel giorno non era passato nessuno, ma ero stato costretto ad alzarmi di continuo per colpa di un insetto che continuava a molestarmi ronzandomi intorno.

L'androne era saturo del ronzio delle televisioni di ogni appartamento, un ronzio che saliva di intensità di pari passo con gli insulti dei programmi delle tre.

Riuscivo a sentire i passi di ogni madre trascinarsi sul pavimento lustro, a sentire il rumore delle faccende che dicevano di odiare, mentre guardando bene amavano più di ogni altra cosa, perchè riempivano quel tempo che le avrebbe altrimenti uccise.

Io salivo le scale lentamente, poggiandomi al muro a buccia d'arancia.

Arrivato al primo piano mi fermai per riprendere fiato e non arrivare a casa col fiatone.

Una porta era leggermente aperta sull'appartamento di nuovi inquilini, conviventi, sui trent'anni.

Una piccola donna lei, i capelli castani e lunghi sulle spalle piccole, il corpo quasi da adolescente, immaturo, o forse leggermente appassito.

Il volto un ovale dall'espressione quasi tragica, come madonna melodrammatica. Gli occhi tristi e insicuri, non si fermavano mai negli occhi altrui, scappavano dopo una visita di cortesia, breve e poco intensa.

Portava sempre gli stessi due vestiti a fiori, che la facevano sembrare una giovane d'altri tempi, che di domenica indossa il vestito nuovo per andare in chiesa.

Mi fermai dunque per riprendere fiato e guardando alla porta semiaperta la vidi passare, guardandomi per un istante.

Rimasi ancora lì, sedendomi su un gradino, evitando di guardare alla sua porta, cercando di sembrare discreto.

Poi la porta si aprì e vidi la sua piccola testa, e un sorriso forzato.

"Ciao" disse lei, chiudendosi leggermente la porta alle spalle. "Buongiorno" risposi, alzandomi e avviandomi verso la successiva rampa di scale, leggermente imbarazzato, di un imbarazzo immotivato.

"Senti," disse lei in fretta, "ti andrebbe di prendere un caffé?".

Io mi fermai, e voltandomi risposi di sì senza pensarci troppo.

Lei sorrise e spalancando la porta mi disse di entrare, cercando di mostrare ospitalità, di mettermi a mio agio.

Il mio imbarazzo era aumentato, ma entrai cercando di dissimularlo.

La casa era vuota e dalla pareti bianche.

Il salone era grande e spazioso, ma senza alcun tipo di arredamento risultava triste, abbandonato.

Solo qualche mobiletto e una vecchia credenza.

In cucina il televisore era acceso e si sentivano dei rumori.

"Fai come fossi a casa tua" disse, mostrandomi la strada.

Arrivammo in cucina. Il marito era seduto e guardava un programma su Canale 5.

Quando entrai rivolse lo sguardo a me e sorrise, senza parlare.

“Siediti.” disse lei,” vuoi il caffé? L’ho appena fatto…”, armeggiando con la moka, le spalle rivolte a noi, il culo evidenziato dal vestito stretto ai fianchi.

La cucina aveva le pareti gialle. L’aria era pesante e sapeva di fumo e alici fritte. Il marito dalle spalle larghe e il busto forte continuava a guardare la tv. Riuscivo a cogliere i suoi sguardi discreti e ripetuti.

“Sì, grazie”, risposi, lei si girò e sorrise.

Il marito accese un’altra sigaretta. Lei mi servì il caffé, sorrisi e presi un sorso. Faceva schifo, e cercai di ingoiare senza mostrare il mio disgusto.

Che cazzo vogliono, cominciai a pensare, perché farmi venire qui?

Poi l’uomo cominciò a guardarmi, in modo insistente, io sorrisi, poi abbassai lo sguardo.

Presi a guardarmi le scarpe, la sigaretta finì in fretta. Ne accesi un’altra.

“Hai dato il caffé al ragazzo?”, disse improvvisamente l’uomo, continuando a fissarmi.

Lei annuì e si sedette, avvicinando la sua sedia alla mia.

L’uomo si alzò e chiuse l’imposta, lasciando la stanza nella penombra.

Il mio imbarazzo iniziale stava diventando timore.

Allora scostai la sedia producendo un rumore stridulo, feci per alzarmi, ma lei poggiò una mano sulla mia gamba. “Aspetta.” Disse.

La guardai, mi sorrise. Io non sorrisi stavolta. Poi guardai il marito, che accese un’altra sigaretta.

“Ti va di scopare con mia moglie?”, disse tranquillo. Sorrise.

Sono pazzi, pensai, sono pazzi. Mi alzai di scatto e non risposi. Guardai lei che continuava a sorridere.

“State scherzando?” dissi, non riuscii a controllare la mia voce, tremula e strozzata.

“No,” disse lui “altrimenti non ti avremmo fatto venire qui.”

Non sorrideva più ora e aveva una mano sul pacco. Mi disgustava. La donna si allungò sul tavolo e poggiò la sua piccola mano sull’inguine.

Mi spostai di scatto. “Non voglio,” dissi, “fottetevi!”. Rimasi per un attimo in piedi, guardai lei che sembrò delusa. Riusciva a guardarmi negli occhi ora.

Lui si alzò repentino poi, mi prese le braccia e stringendo mi immobilizzò. Provai a scalciare, ma riuscii solo a buttare una sedia per terra. Stringeva forte e mi mancava il fiato. Avrei potuto urlare, ma non lo feci. Lei alzò comunque il volume della televisione. Mentre lui stringendo sempre più forte mi fece sedere, lei mi sorrise dicendo “Non preoccuparti, ci divertiremo”.

Io continuavo a muovere il busto, ma troppo forti erano le braccia che mi stringevano.

Avevo paura ma non urlavo. Ora non riuscivo nemmeno a parlare, aprivo la bocca ed ero impotente, come quando nei sogni non riesci ad agire.

“Stai tranquillo”, disse lei inginocchiandosi, avvicinandosi a me, sbottonandomi i pantaloni.

Mi abbassò i pantaloni, le mutande, “Eccolo qui.” disse, e cominciò a leccarmi il cazzo.

“Non vogliamo farti del male”, disse l’uomo, tornando al tono tranquillo di prima. Un tono inquietante e tranquillo.

Si fece duro, e lei cominciò a succhiare. Mi accarezzava le gambe e succhiava. Mi guardava talvolta, sembrava sorridesse. Il marito poi mi lasciò, improvvisamente. Accese una sigaretta e prese a guardarci, infilando una mano nei pantaloni. “Che cazzo fai?”, sussurrai ansimando.

“Stai zitto ora!”, mi disse, con una voce diversa da quella che avevo sentito fino a quel momento. Una voce viscida e dura. Lei poi si staccò da me, lasciandomi sulla sedia col cazzo ritto. Mi sentii nudo e imbarazzato. Avrei voluto coprirmi ma rimasi lì. Immobile.

L’uomo continuava ad armeggiare col suo cazzo, sembrava impaziente e ansioso.

Lei si alzò, si sfilò il vestito e la biancheria. Rimase nuda. Sembrava una bambina.

Si sedette per terra, supina, con due dita tra le gambe.

Mi guardò, sorrise lasciva. “Scopami ora.”, disse secca e languida.

Io non dissi niente.

Mi inginocchia. Mi stesi su di lei, che prese il cazzo tra le mani e lo infilò dentro.

Cominciai a muovermi, lei ad ansimare, ma i suoi gemiti erano troppo marcati, troppo intensi, allora pensai che stesse fingendo. Ne fui sicuro quando con la coda dell’occhio vidi che lui si alzò a prese a guardarci, ormai senza più le mutande, che se lo sbatteva cercando di farselo venire duro.

Anche lei lo vide, e quasi strillava.

Mi stringeva e sentivo le sue unghia nella schiena.

“Sbattimi, sbattimi forte”, prese a dire chiudendo gli occhi.

“Sbattimi, sbattimi, stronzo”, ed io la sbattevo e sentivo il freddo delle mattonelle sulle gambe. Abbassai la testa tra una spalla e il collo, sentendo l’odore dei suoi capelli e chiudendo gli occhi.

Sentii una mano sulla spalla poi, che mi tirava. “Spostati ora, in fretta!”, disse lui, mentre continuava a sbatterselo. Mi tirò fuori da lei, la girò e glielo infilò dentro, cominciando a grugnire e dandole forti schiaffi sul culo. Rimasi per qualche istante per terra, sentendo freddo, provando un piacere misto a leggero disgusto.

“Vieni qui, bello,” disse lei,” non è giusto che tu vada via così”.

La raggiunsi guardandola dall’alto. “Inginocchiati,” disse. Ricominciò a succhiarlo, più veloce questa volta.

Intanto l’uomo continuava a grugnire, sembrava soddisfatto ora. Dopo un po’ le venni in bocca.

Sputò a terra quel poco di sperma che le avevo concesso, e con la bocca sporca mi sorrise, mentre cominciava ad ansimare per davvero.

“Vattene ora, e grazie”, disse lui con un filo di voce, continuando a spingere. Mi alzai i pantaloni e mi allontanai veloce. Prima di uscire li guardai. Li guardai mentre scopavano, e mi fecero schifo. E mi feci schifo anch’io sentendomi sporco e eccitato.

sabato 25 settembre 2010

Città

Scivolano silenziosi, invisibili e insoddisfatti. Corpi di effimero vigore accompagnano tutti, nessun escluso, in un tripudio di monotonie e di esclusive banalità. Pochi lo notano.Ne sentono l'odore, la puzza, nauseabonda eppure così comune da essere inodore.

E' la riva di un fiume, birre su birre, il verde degli alberi a far dimenticare il grigiore quotidiano, qualche sigaretta, e si pensa a ciò che è, ciò che sarà ed a ciò che è stato grande."Grande" di una grandezza inesprimibile.Uomini capaci di sfiorare l'apice per poi cadere, silenziosi, nell'abisso della dimenticanza.Ma lì, sulla riva, ragazzi diversi condividono idee comuni. La voglia di provare. Provare ad emulare quel che Grande fu e che ora è svanito. Fin quando la mente, stanca, eppur ancora in fiore, lascierà che germoglino nuove vite di speranze migliori.

Una chitarra, una canzone. Ancora birre su birre. Sul fiume pochi battelli, qualche cigno, troppi stronzi. Nell'incoscienza di un'altra lingua, l'Est lascia che le loro parole sfumino nel vento.

Dal ponte una voce soave, profonda.Scalda i cuori nell'oscurità delle tenebre. Vibrante di sincerità, ricca di disinteresse.

La fanciulla del Sud si avvicina, fotografa, sorride.I ragazzi intravedono nel suo solitario incedere la loro ansia di libertà. La possibilità di fuggire i vincoli sociali. Verdi visioni lasciano che la fanciulla sfugga ai loro sguardi.

Notti diverse per gente normale, disse qualcuno.

Notti comuni per gente speciale, disse.

Graziose cameriere li accolgono. Birre su birre. Musica. Cimeli di glorie passate.

Brilli.Ubriachi. Si abbandonano al dolce abbraccio di un misero letto. La televisione accesa. Un uomo, ultimo dei Grandi, si rammarica del menefreghismo altrui, costretto nella sua libera prigionia. Un libro, due parole e molte risate li accompagnano al sonno.

L'inatteso caldo di una mattina settembrina.La gioia di scoprire.

Lo spettro del ritorno.

L'ultimo saluto alla dolce donna che li ha accolti nel suo grembo.

Madre di giorno.Puttana di notte.

lunedì 20 settembre 2010

1884. Nové Mésto.

1884
Nové Mésto.


Ci siamo incontrati.
Gli occhi di speranze ammaliati.
Ci siamo incontrati.
Cercando salvezza dentro ad un arrivederci.
Partiti.
Partiti.
Partiti.
Dall’oblò
L’aeroporto bagnato di grigio e noia.
Le nuvole in cielo
Specchi di pianto.

Poi l’ascesa.
La salita poi.
Per una volta ho volato.

Bestemmiando temendo vendetta divina.
Visto Napoli dal cielo.
Visto Napoli piccolissima.
Buio formicaio,
piaga bellissima languente,
dal cielo.
Poi un limbo.
Gli occhi abbagliati da
Un nulla infantile,
immerso nel vuoto
mi sono sentito.
In mezzo a quel vuoto
D’un bianco più vero,
librandomi liberato.
Nuotare nel grembo materno,
protetto da liquido
niente.
Il sole poi.
Come mai prima
Sopra le nuvole
Mi è sembrato di essere
Di fronte a dio.
L’infinito mare bianco morbido
Sembrava
Riflettere il blu così intenso
D’un cielo più spesso
d’opaco dipinto.
Un mare di panna leggera
Ci avrebbe salvati dal crollo.

Tutto quel candore
Ha bruciato i miei occhi.
Ha bruciato i miei occhi
Assuefatti allo sporco.

Non riuscivo a tenere
I miei occhi nel sole,
ardevano i miei occhi
lacrimando sul fuoco
rinunciavano.
Per poi riprovare.
Ancora,
mentre montagne di nuvole sparse
costruivano il fondo del cielo.
Poi scendemmo bruscamente
Dal quel mondo
Protetto
Dal tremulo umano respiro
E così fummo stretti
Da un crepuscolo bruno d’Europa.
A Praga.


§


Attraversammo la periferia.
Seduto in fondo
Guardavo fuori.
Strade lustre deserte
Semibuie,
avvolte da un’aura blu cobalto.
Le luci gialle e rosse delle auto
Dardi infuocati.
Guardavo i volti della gente.
Facce larghe e guance rosse
Su sfondo di slavo pallore.
Capelli grigi evanescenti.
Donne si avvicinavano all’uscita
Stringendo forte al seno
Bagagli di mansuetudine
E morte a credito.

Fuori sempre più buio.
Scendeva la notte
E sapeva di tiepida speranza.

Camminai nelle strade
Lucide e larghe,
sfrecciavano le auto sfrecciavano,
guardavo ai palazzi
freddi austeri.
Guardavo ai grandi palazzi
E la città cominciava
Da lontano
a vincermi.
Con fascino di donna matura.
Lunghe gambe
Avvolte da lucide calze
Le strade.

Poi scese la notte
E sapeva di tiepida vibrante
Lontananza.

203 poi il numero.
La stanza.
Pareti pallide
Tende cineree.
Una larga finestra sulla strada
Ombrata di notte.
Di fronte a me
La decadente austerità
dei fabbricati.
Luci soffuse.
Semibuia la camera
Si chiudeva su di noi
Bollenti di caldo siero
Da sputare
Vomitare.
Camminando poi fieri,
giacca stretta
su petto gracile
ci abbandonammo
alle calde braccia della città.
Avvicinandoci a passo svelto
Al suo buio cuore pulsante.

Praga è stata crudele
Quando mi ha abbandonato.

Gli occhi illuminati
Dalla gioia di essere soli
E nudi.

Arrivammo così vicini al centro
Da poter
Sentire sussultare la terra
Sotto i nostri piedi.
La città ci si stava lentamente svelando,
come donna protetta dal velo
che al buio rivela
un viso diverso allo sposo.
Mangiammo cibo speziato.
Un ragazzo dal volto ossuto
Mi si avvicinò
Proponendomi attimi
Di dolce abbandono.
Rifiutai.
Dietro l’angolo
Poliziotti interrogavano giovani
dal volto disfatto.
Un sirena
In lontananza
Emetteva suoni
Di un bagliore blu elettrico.
Ammaliato dalle luci della città
Desiderai di entrare in ogni locale,
Desiderai
Di riempire i miei occhi di vita
E farli scoppiare.
Mori tentatori ci prendevano le braccia,
cercando di tirarci in fondo a un sottosuolo
di demoni dal corpo scoperto,
dagli occhi distratti.

Cercavano di tirarci giù.
Di tirarci giù.

Continuammo a camminare
Quasi temendo
Subitanea discesa.
Rimandandola.

Raggiungemmo una piazza irreale
Protetta dal tempo
Di immortale fragilità
Ritta.
In fondo
Come castello
Brillando di fari giallastri
La cattedrale
Nella notte.
Fui immerso in un mondo più antico
Protetto
Da bolle
D’indolente languore.

Bruciammo le mani e ci abbandonammo.


§


Accendere una sigaretta,
fu la prima cosa che feci,
aperti gli occhi.
Tanto amara da disgustarmi
La mia bocca.
Il mio corpo gioiva
di tanto
Abbandono,
mentre infreddolito
tiravo la coperta alla gola,
lasciando che la cenere
posasse sulla moquette.


§


Praga di giorno
È donna in festa.
Bagnato di vita sempre nuova
Il ventre,
Fecondato da calda bellezza
E splendore.
Fummo trasportati dalle strade
Come in un fiume
Dall’acqua calda e umana.
Fummo trasportati
Lasciandoci andare
Sentimmo la gioia dell’abbandono.
La piazza dell’orologio
Di giorno
Perdeva la magica irrealtà
Sputata su di lei
Dalla notte.
Ma piena di viva allegrezza
Permetteva
Alle mie labbra
Di schiudersi.
Arrivammo poi al ponte.
Il ponte Carlo saltava
Sul Moldava.
Di fronte alla torre
Percorsa da strie
Verde smeraldo
Che stava ai suoi piedi
Immortalammo
Un momento
Che un giorno
Rimpiangeremo.
Poi percorremmo il ponte.
Cattoliche statue di santi ai due lati
Regolarmente
Mostravano pose
Di carità e vocazione.
Solo sorrisi lassù,
dove ognuno
lontano dal proprio
mondo
si sentiva
come rifugiato.
Anche per me era così.
Come una bomboniera,
noi piccoli
ridicoli pupazzi,
aspettando
che qualcuno
faccia scendere la neve.
Artisti di strada
Ritraevano coppie
Di amanti abbracciati.
Poi riso
E musicisti,
L’età avanzata,
Il suono del trombone
E della voce graffiata
Da un megafono di latta.
E volti di donna.
Volti pallidi ovali
Capelli bruni
Occhi orientali
E biondi capelli
Addobbati d’occhi di cristallo
E sorrisi.

Di ogni donna mi innamorai di ogni donna.

Il suono del trombone
E della voce graffiata
Da un megafono di latta
Su un liquido sfondo.
Ricordai che ancora
Esiste
Una gioia
Gratuita
Senza pretese.
Continuammo a camminare tra la gente
Finché da lontano
Non sentimmo una fisarmonica.
Arrivammo di fronte all’uomo.
Alto
I capelli grigi
Corti
Il corpo robusto
Avvolto allo strumento
A terra qualche
Piccola corona
A lato un bastone.
Gli occhi chini e bui.
Le dita leggere
Sui tasti
Vibravano.
Una musica tenue
Di nostalgie
Di paesaggi forse visti
Un tempo.

Una nostalgia di paesaggi forse visti.
Un tempo.

Gli occhi bui
Fissi
In un nulla
Ch’è anche nostro.
Poi improvvisamente
La voce.
Tenue
Seguì il passo delle dita
Sussurrando
Contenendo a stento
Tanta sofferenza
E grazia.
L’uomo non sapeva
Dei nostri occhi.
Senza rumore il nostro respiro.
L’uomo non sapeva,
Cantando
Come se stesse per morire,
lasciando al mondo
l’ultimo canto.


§


Vedemmo Praga dal punto più alto.
Come una bomboniera,
tutti aspettavano che scendesse la neve.


§


Ritornammo sul fiume.
Tra gli alberi
Fummo su un’isola.
Solo verde
I miei occhi.
Ci sedemmo.
Pochi metri dalle sponde
E guardammo il fiume
E la città
Dietro di esso.
L’acqua scintillava
Di un sole forte,
Ed era forte e viva.
Come un quadro di Monet
Il profilo della città,
e del parco.
Giovani amanti
Immortalavano i loro
Sguardi
Per rassicurarsi
Una volta soli.
Io immortalavo loro
Da lontano,
per cercare di salvare
il mio cuore
troppo stanco.
Stesi tra l’erba
Dormivano degli uomini
Abbracciati
Dalla terra e dal vino.
Noi appoggiati alla corteccia,
Le mani all’erba,
fumavamo
dipingendo
il nostro quadro
nei ricordi.
Sorridevamo
Per la paura
Di essere beccati
Da cigni aggressivi.


§


Poi scese la notte
E sapeva di tiepida vibrante
Lontananza.



§


Tornammo in strada,
e la città era di nuovo cambiata.
Di nuovo
Le luci
Il desiderio
Il languore
E la fame.
Percorrendo
Piazza San Venceslao
Canticchiavo.
E questa volta
Ci lasciammo guidare
Dai mori.
E scendemmo nel sottosuolo.
Entrammo in locali
Di luci splendenti e soffuse.
Guardammo i suoi angeli nudi.
Ce ne innamorammo.
Guardando quei corpi
Di marmo e velluto.
E dopo capimmo
La tristezza
Di corpi
E di danze
Prive del nostro abbandono.

Proposi a una donna
Di venire con me
E sposarmi.
Ma sorrise e mi baciò la guancia.

Fummo in un alto palazzo
Poi.
E rumore e danze spasmodiche
E luci colori
Sorrisi drogati
Occhi lucidi.
Noi ci aggiravamo
Bevendo.
E tutti ci riconoscevano.
Allontanandoci.
Provammo a ballare anche noi.
Ma senza riuscirci.
Scappammo
Rimpiangendo
Corone già perse in partenza.
Riparammo
Sul ponte.
Di notte buio e
Bellissimo.
Più nera della notte intorno
L’acqua del Moldava.
Buio il ponte
E vuoto.
Le luci blu elettrico
Della discoteca
Vicina
Davano luce inconsueta
Ai nostri capelli.
Vuoto il ponte,
e bellissimo.
Seduti
Lasciammo che il tempo
Scorresse.
Passò un uomo
Ed ebbi paura.
Non ci vide nel buio.
Poi andammo anche noi,
tirandoci a forza le gambe.
Canticchiavo sottovoce io,
gli occhi fissi a terra.


Nightclubbing we're nightclubbing
We're walking through town
Nightclubbing we're nightclubbing
We walk like a ghost
We learn dances brand new dances
Like the nuclear bomb
When we're nightclubbing
Bright white clubbing
Oh isn't it wild...

§


Bruciammo le mani e ci abbandonammo.


§



Solo per la partenza
Riuscii a conoscere
Il mattino.
Sceso in strada,
guardai la strada spoglia,
e i volti dei miei compagni.
Stanchi e affamati
Come il mio.
La voglia di restare
Di non tornare,
e il rimpianto
per un coraggio
che non c’è.
Alzai la testa
E vidi
Sul muro
Il cartello.

1884
Nové Mésto.
Praha

venerdì 17 settembre 2010

Stazione Centrale.

Stazione Centrale.
Treni che non si fermano mai, che camminano su rotaie arruginite.
Passeggeri, ombre indefinite che osservano, che pensano.
Quanti pensieri, nella Stazione Centrale.
Napoli, erano le 20.00, per il mio orologio.
Tante giacche e cravatte, occhiali scuri, valigette nere.
Gente frenetica, che corre, che vive al telefono.
Tante borse, riviste, giacconi di pelle.
Gente frenetica, che cammina, che attende.
Giovani che ridono, forse troppo distratti.
Vecchi che sopravvivono, alla malinconia.
Ed il pavimento che era troppo sporco, logoro.
Fuligine su quei volti stanchi, ladri.
Il viso di chi naviga nell'odio, di chi ha fame e non mangia mai.
Gente disperata, che piange, che uccide.
Mendicare, fremere, desiderare.
Vivere su di un cartone umido, su di una pezza fradicia.
Ma non ha troppa importanza, almeno per me.
Avevo un treno, destinazione improbabile.
Era una questione di soldi, ma anche di ispirazione.
Qualcuno aveva detto che non era importante arrivare, ma andare.
Aveva ragione, credo.

Sonetto di notte.

Amavi passeggiare tra le acque,
ed ascoltare il pianto dei fiori
e quando poi il vento tacque
ti vedevi sbiadire tra i colori.

Il canto delle cicale dagli ulivi,
l'amarezza di questa eterna guerra
il silenzio del sordo, tu sentivi
ma non ora che ti ricopre la terra.

Tra fronzoli e vanità a cui ispirarsi
io vivo per quel che fu la vita del padre
dall' alba, all' estremo arrestarsi.

Rimembranze, tulipani di dolore
sbocciate ora in attimi di tenerezza
e tra foglie secche, scorgerò un fiore.

mercoledì 15 settembre 2010

L'ultima ballata

Scivolando da un dirupo
le parlo con delicata maniera
la sua parola non è veritiera
e dalle sue labbra io divengo più cupo

La sua voce frattura il silenzio
spegnendo ogni goccia d'anima nera
biasimo la signora che accompagna la sera
ed io mi prosciugo in un morbido fiume d'assenzio

Solco le nuvole come soffici diamanti
seguito dal velluto nero di una giovane amante
lieve è il suo passo claudicante
ed immobile è la falce che seduce i lestofanti

Cadono scie di luci soffuse
dalle sue eccitanti gesta confuse
ed ella abbraccia la vita come consorte
in questo sensuale ballo
della morte...

Curando la follia con candide paure, trafigurava l'odio in vanità.

Tutto il giorno ho avuto la nausea.
Presto ho aperto gli occhi stamattina, troppo presto. Guidando ho visto terre abbandonate prese dal ferro da fumi violacei. Ho visto costruzioni accennate impalcature scheletri di palazzi costruiti da sangue dolore a nero.
Ho percorso quelle strade asfaltate male e deformate urlando affinchè il camion non mi arrivasse addosso fumando trattenendo il vomito reggendomi lo stomaco.

Poi ho guardato i miei capelli il segno del tempo che è già sul mio volto che è dentro
quel buio sotto i miei occhi.
Tutto il giorno ho avuto la nausea ho buttato sigarette appena accese.
Ho visto sulla sinistra delle colline che ogni mattina mi danno speranza perchè chiare e brillanti fra tutto l'opaco.
Donne dal corpo svestito aspettano fumando di vendere istanti di felicità a basso prezzo.
Una donna vedo ogni giorno seduta su una sedia di plastica, si ripara dal sole battente sotto un ponte. Aspetta e non ha occhi.
Vorrei donarle degli occhi nuovi, con dentro immagini più belle.
Solo nausea mi ha dato quel liquido bruno che speravo mi desse riparo.
Ingurgitato litri di coraggio liquido per cercare di vivere, senza riuscire ad agire senza riuscire.
Stamattina ho trovato tracce di vomito sulle scarpe.

Poi sono tornato.
Ho cercato di ignorare la nausea, ho mangiato.
Visto negli occhi di freddezze glaciali rancori malcelati.
Non ho parlato ingoiando senza gusto.
Bevuto acqua frizzante, pungeva alla gola.
Mi sono alzato in fretta, sono scappato.
Poi tornato al mio buio angolo di solitudine ho letto parole di viaggi lontani e dolore.
Letto di monti e di luna colore del rame letto di sogni e puttane.

Mi sembra di aver dormito per secoli, poi.

Sto dormendo da secoli, ho pensato dormendo, sono senza speranza.

Non ho dormito così tanto, in fondo.
Svegliandomi ho ritrovato la nausea e una casa vuota.
Ho sognato di andare via, e vivere una vita più sincera.
Ho sognato una donna che potesse dormire al mio fianco spargendo calore.
Svegliandomi ho ritrovato la nausea e una casa vuota.

Parole non dette senza forma premeno in petto scoppiano in gola.

Suicide - Ghost Rider (Taxi Driver)

Sindrome

Piovono pensieri inutili
mentre mi masturbo sull'incompatibilità
che attanaglia i miei disperati sogni
Rifiuto ogni tipo di verità
e ciò rende me stesso un rifiuto scomodo
maledetto come una troia in calore
che rinnega il suo amore
per piaceri fittizi

Voglio un orgasmo di sincerità
che superi ogni falsa barriera di iniquità
e che trascuri le infinite facce
di una medaglia oramai troppo stanca
nel concepire realtà già morte

Solo allora sarei in grado
di scopare dolcemente la mia serenità
senza sentirmi prigioniero
della mia stessa libertà

E riuniti attorno al focolare
dei nostri sogni perduti
ci accorgiamo di come
insieme ad essi
abbiamo perduto e saturato anche i nostri amori
La dannazione eterna
sulle indecenze che ci limitiamo a procreare
sulle misere emozioni colme di bugie
e sulle malizie prive d'istinto

Il contatto diretto con la natura delle cose
è la residenza della mia guerra e della mia pace
le due muse che con inerzia tendono a consumarmi
Ma scegliere con chi delle due schierarmi
è un salto nel vuoto di cui non ne son capace

Infine forgio nel mio petto la spada della vita
e colmando di inganni il mio cuore
aspetto contando le spietate ore
che la mia piccola e nefanda illusione sia finita...

lunedì 13 settembre 2010

A kid.

Sembra sia ora.
Il tempo dominato da sogni adolescenziali è prossimo alla fine.
Non c'è più spazio per gli ideali
non c'è più spazio per i propositi
non c'è più spazio.
Strappato via da una sorta di liquido amniotico
che mi isolava dal mondo e mi nutriva con l'immaginazione
ora troverò nuova vita nella menzogna
nell'invidia
nella delusione
nell'amarezza
nella resa.
Tutto ciò mi attrae con forza
ed io come un ratto qualunque ipnotizzato dalla melodia
mi accingo ad annegare nel fiume.
Quando ormai i miei stessi occhi
non riusciranno a vedere oltre l'ombra ai piedi del mio letto
avrò dimenticato tutto o quasi
e ciò che sono ora andrà perduto.
Inizia la vita
e non ho mai desiderato tanto non essere nato.

martedì 7 settembre 2010

Perchè siete tristi? Stronzi!

Perchè non sei felice? Non devi essere triste.

Non ho soddisfazione alcuna, ti dico.
Ho coscienza, non sono un illuso, non più.
Il mio dolore è spesso quello di non provare nemmeno il più infimo dolore.
E' come essere già morti.
La felicità che non posso abiurare è solo una notte un istante di oblio.
Una notte destinata a bruciare.
La luce del giorno porterà la coscienza del momento scomparso.
Resterà cenere, ti dico.

Cosa pretendi, la felicità infinita?

Non pretendo niente io.
La rassegnazione è un oasi che non posso raggiungere.
Un miraggio per me.
E' il mio corpo a decidere, solo sterile pensiero la mia mente.
Il mio corpo che continua ad illudermi a rendere vive speranze di pietra.

Ma non si può vivere così.

Cosa dovrei fare io?
Non riesco ad essere soddisfatto di contentezze a buon mercato.
Posso ottenere tutto quello che voglio.
Non mi interessa poi così tanto però.
L'attimo in cui vorrei permanere non dipende da me.
Cade da un cielo tremendo e brucia.

Ma cosa pretendi?
La vita è solo questo.

Non pretendo niente io.
E' vero, la vita è solo questo.
Come potrei essere felice dunque?
Sopravvivere, in replica.
Essere soddisfatti di gambe aperte senza buio e abbandono.

Piccole cose devono darti gioia.
Una famiglia un lavoro degli amici una donna.
Di questo devi accontentarti.


Non riesco ad accontentarmi.
Non riesco ad accontentarmi.
Mai mi renderanno felice le piccole soddisfazioni di questo mondo troppo gretto.
Non è solo soddisfazione di un bisogno quello che cerco.


Anche cagare al mattino ti rende felice, dunque.
Una piccola cosa, no?

Ciò che tu vuoi non esiste.

Ciò che io voglio non esiste.
Celato il mio sguardo porta pianto.
La mia testa ancora affamata di stucco continuerà a sbattere contro il muro.
Credi che non lo sappia io?
Cosa dovrei fare se non ho coraggio.
Continuo a sopravvivere.
Presa coscienza del buio non si torna più indietro.
E così quel mio istinto.
Se solo potessi ammazzarlo.
Ci ho provato.
Mentivo.
Se solo potessi davvero ammazzarlo
E rassegnarmi.
Non puoi comprendermi.

-Vorreste cominciare da capo, potendo?

- Di nuovo? Diciotto anni sono già stati abbastanza duri. Va bene così.
 O meglio, va così.

Da "Diaro di un trasandato" (prima)

…..Ero con Nic, eravamo al porto. Una bottiglia di Rum e molte parole da spendere. Mario aveva qualche bicchierino, di vetro, molto appropriato. Al quarto bicchiere ridevamo del più e del meno, ridevamo per nascondere il dolore, per nascondere i cocci di una vita poco affettuosa. Si avevamo il cibo, si avevamo modo di esprimerci, ogni tanto avevamo anche qualcosa da fare, per non trovarci sempre a tu per tu con il nulla. Ma ci mancava tutto il resto. Maledetta angoscia che non viene via, maledette cose tanto importanti da fare, maledetta forza d’animo e volontà che ci abbandona nel momento del bisogno. Quello che dobbiamo fare a noi non piace, a me fa schifo, ma io avevo bisogno di cibo e di un qualche cazzo di modo per potermi esprimere. Trovare il mio posto nel grande cerchio dello squallore, questo dovevo fare. Ma non riuscivo, i test universitari sono andati, ho perso un anno, o almeno non lo sfrutterò a dovere. Non mi piace ciò che dovrebbe essere la decenza, questo vivere tra sciacalli e volpi, non mi va di navigare in un mare di merda. Non mi va, ma devo. Allora io bevo sul porto. Bevo perché bere fa male, perché la vita fa male, anche se finisce, e finirà prima o poi, con le lacrime o con il sorriso. Bevo con Nic l’aspirante scrittore, bevo con Mario e i suoi dolori esistenziali, bevo e brindo alle spine che ho sulla coscienza. Bevo per la mia donna, che si perde tra isterie e frustazioni, eternamente scontenta. Bevo perché è come me, ma non vuole ammetterlo. Bevo perché ho perso mio padre, quando il suo cuore ingrato decise di rovinare quel poco di vita che avevo costruito, con un po’ di allegria e un diploma che doveva essere abbastanza decente. Decente, come la vita che dovevo vivere. Al quarto bicchiere ridevo, al sesto piangevo, al nono iniziai a vomitare decenza insieme agli altri. E insieme agli altri, maledivo le mie dannate sventure. Poi il collasso, ricordi sfocati e gocce di delirio che piovevano dal cielo. Mi ritrovai a casa con la televisione accesa, alle quattro di notte, con un dolore lancinante allo stomaco.

Giò

Solo un altro curioso caso

Niente panico!!
è solo un altro curioso caso
di un pensiero che viene compreso da tutti.
Povero piccolo pensiero
la guerra di una vita
e cio che interessa di più al grande papà
è la battaglia di un momento.
Un momento maledetto
di debolezza
e sofferenza.
Pentimento
il pentimento di essere stato così...
cosi...
...come non si vuole essere
è l'infezione della comprensione.
Povero piccolo pensiero
tutto si riduce alla comprensione.
Non hai più motivo di essere
trova un posto tranquillo
e muori.
Fai come ti dico
muori come era previsto che fosse.

lunedì 6 settembre 2010

Basta che funzioni.

- Lo so che non dovrei abbassare lo sguardo
ma sono così stanco.
Cosa suggerisci?
- Un cazzo,ecco cosa
sei solo.
Nulla ha senso
fa come ti pare.
Basta che funzioni.
- Ti prego aiutami
non voglio essere solo.
- Non pregare
sprechi il tuo tempo
ma in effetti lo sprecheresti comunque.
Se dedicarti a suppliche e preghiere ti fa sentire meglio
FALLO.
Basta che funzioni.
- Non funziona.
- Lo so.

Cazzo è sabato! Andiamo a far baldoria!

Abbiamo brindato per dimenticare.
Poggiati a degli scogli troppo scomodi.
Il solito mare ci guardava imprecando sottovoce.
Nessuna Luna in cielo.
Qualche stella sbiadita e niente più.
Sulla sinistra,
la città vecchia e abbandonata ricordava le nostre macerie.
Quello che era un bruciore soffocante
al secondo sorso è diventato un tiepido rassicurante languore.
Nei vostri occhi ho visto me, amici miei.
Mentre ingoiavate buttando la testa all'indetro,
lasciando che il livello si abbassasse veloce.

Non preoccuparti, tra un po' avrai dimenticato tutto.

Poi l'ebrezza e il riso spasmodico l'abbraccio e l'abbandono.
Tutto
improvvisamente
mi è sembrato meno importante di quanto fosse in realtà.
Persino il mio corpo.
C'era penombra intorno a noi,
poco lontano luci bianche plastiche illuminavano il parcheggio improvvisato
uomini e donne si tenevano per mano.
Ragazzi scavalcavano i nostri corpi abbandonati
avviandosi verso un buio di preservativi scartati.
Scavalcavano i nostri corpi intuendo
che quella non era la consueta finta ubriachezza
della nostra generazione.

Tesoro guarda quelli, perchè bevono e non ridono?



Poi,
improvviso
un pianto.


Tutto ciò che dovevamo dimenticare
si era fatto vivido
e presente.

La morte e il nulla ci hanno avvolto.
E ne abbiamo pianto.
Abbracciandoci vibrando di un dolore più forte.

Mi sono alzato.
Sognando di saltare su quegli scogli
di affondare in quel mare buio.
Mi sono abbandonato
ad uno scoglio
sperando che potesse darmi
amore
mi sono steso piangendo
sperando di svanire in fretta
ma solo le mie lacrime ho sentito.
E delle braccia deboli quanto le mie
che mi rialzavano
in un abbraccio solidale fraterno
unto dallo stesso vuoto.

Non ce la faccio.
Non ce la faccio.

Abbiamo portato allo scoperto
quella morte che tutti ignorano
e ci siamo persi.

Non c'è niente che sia giusto, ti dico.


Tu c'eri ricordi gli spasimi ricordi?

Immagini che ho provato a cancellare
ma ancora vive rievocate.

Poi,
la testa tra le braccia,
i piedi larghi per non lasciare tracce.
Ho cercato di vomitare tutto il male.
Ma non ho trovato tregua.
Ho provato a rialzarmi.
Non ce l'ho fatta.

Non era solo il camminare a non essermi concesso.

Andiamocene, vi prego.
Ho bisogno di dormire.

Mi hanno aiutato a camminare
spalle più sobrie delle mie.

Siamo passati in mezzo alla gente
in mezzo ad un nulla mascherato
da giovanile gioia di vivere.
In dei vicoli bui
tutti ridevano guardandosi intorno
mostrando
volti abbronzati felici.
Tutti ridevano mentre cadevano in una spirale che finisce nel nulla.
Tanta menzogna mi ha disgustato.
Mai sono stato così lucido.
Ho abbandonato la mia consueta indifferenza
sputando in faccia ai miei coetanei.

Non ridete, state morendo, stronzi.
Mi fate schifo.


Tutti ridevano mentre urlavo il mio disprezzo.
Ridevano di me stavolta.
Non sono riuscito nemmeno a farmi picchiare
a rimanere nel fango
le labbra bagnate dal mio sangue.
Nemmeno gli insulti scalfiscono questa suprema
indifferenza.
Questa orribile maschera di sicurezza.
Allora per sentire
ho dato un calcio ad un palo
desiderando che tutti potessero morire
e capire.

Poi uomini e donne nelle auto
ragazzi in strada
sorrisi parole rumore il Caos
tutto mi è sembrato infinitamente stupido.
Ho cominciato a ridere di un riso disperato che sembrava un pianto.
Non ce l'ho più fatta poi.
In macchina mi sono abbandonato al buio dei miei occhi chiusi.
- Come puzziamo.-
- Sì, noi puzziamo, almeno.-
 



Ho sognato stanotte.
Ero in un bagno spoglio.
Un uomo iniettava eroina ad una donna emozionata
che si poggiava poi con la testa ad un muro
orgasmo in corso
la bocca aperta
gli occhi vitrei.
La stanza illuminata artificialmente
l'uomo dal volto crudo
come un quadro fatto male.
Ho visto Lei che
improvvisamente
mi chiedeva di sposarla
rendendomi inadeguato.
Lo stesso edificio poi.
Tutti erano in maschera.
E si ammazzavano,
lasciando macchie di sangue sui muri.
Io mi nascondevo
passando sui cadaveri
il volto trasfigurato coperto
da una maschera brillante.
Mi nascondevo
mentre sentivo gli spari
e la morte.
Arrivo in una stanza alla fine.
Una stanza vuota.
In fondo delle maschere in fila
come di terracotta
e degli oggetti.
Delle persone stavano scegliendo la maschera più adatta a loro.
Mi avvicino alle maschere.
Le studio, una ad una.
Devo sceglierne una.
Ma non ci riesco,
nessuna è adatta a me.
Mi volto allora.
C'è un monile appeso ad un gancio
come vetro di Murano.
Lo prendo e c'è mio padre.
- Cosa fai? Non puoi rubarlo.-
C'è anche una ragazza,
i capelli ricci eyeliner nero.
- E' per te.- dico.
Un suo sorriso.

Poi il nulla.

Anarchia

Si strappò dalle catene.
Pietra su pietra, vita su vita,
Rase tutto al suolo.
Non risparmiò i legami di convenienza.
soffocò castellane e consiglieri,
menestrelli e letterati,
banchieri e ministri.
Rase tutto al suolo.
Pietra su pietra, vita su vita.
Impugnava frammenti di follia taglienti.
E correndo abbatteva lapidi che vestivano rosa,
assassinava giovani figli di innocenza perduta.
Squartava in schizzi d'odio vesti bianche,
in una dannata frenesia, in un solenne giudizio.
Sputava sulle schiene piegate, camminando tra le carni
come una belva si nutriva di scalpi e sangue,
di cemento e carta, di sorrisi e lacrime.
Sciogliere certezze era il nodo del suo esistere.
Niente poteva la compassione.
Niente poteva il politico e il suo carisma.
Nulla la propaganda, e le solite vecchie prigioni.
Pietra su pietra, vita su vita,
Rase tutto al suolo.

Giò

Giovinezza

Vorrei comprare frammenti di felicità, non so se ne è rimasta ancora, ai grandi magazzini. Uno scatolone impolverato, sulla mensola a sinistra. Un abbandono interminato, in una nottata povera, di dolci abitudini. La piccola gioia, di grandi peccatori. Cristo non farà ritorno prima dell’alba, vi perdonerà tra nuvole sbiadite. Ricordo di quel sospiro, il naufragio di inesauribili brame, tra le bellezze delle maree. Dalle rocce al fondale, poco più di un respiro profondo. Vivere in eterna beatitudine, nel piacere di un dolore spazzato dal vento. Un suonatore stonato era riuscito a offrirmi, delle briciole d’allegria e un bicchiere di vino.

Celate vertigini, ma tanta grazia nei vostri dispiaceri. Siete fiori di fuligine, e ombre nelle mie mani. Il vecchio pazzo continuava a parlare, era rimasto solo con la vita, con tante parole da bruciare. Non le si sta dietro, si continua a cadere, si perde l’equilibrio. Un dolce sospiro, questa terra trema, e non si ferma più. Un giorno è volato in un soffio, ed io a correre, ancora. Non so quando potrò fermarmi a guardare le nuvole, anche un attimo soltanto, a guardare gli aquiloni nell’aria, non so quando le lacrime lasceranno ossigeno ai pensieri, non so se avrò ancora voglia di stringervi la mano. Lo specchio riflette un uomo troppo normale, un viaggiatore distratto. Si stavano chiudendo le porte, per via della malinconia in fiore, la nostalgia del volto, la distanza dell’anima. Verso i bordi del cielo, in silenzio, vorrei rifugiarmi qualche tempo in solitudine.

E un ramo di ciliegio cadeva dal tronco, per il vento in tempesta che serpeggiava violento. Il terriccio della via che si alza in volo, e la pioggia rinfresca gli smeraldi delle foglie. Strade poco illuminate, sentieri bagnati dalle nubi, quelle stelle frastagliate che osservano gli amori, nel silente consumarsi. Uomini che comprano vanità da rigettare nelle mascelle, che non si azzardano, a sfiorare le spighe con la falce, comprano debiti di legno per le doghe del letto, e per il loro grazioso vivere in affitto. Quando il tramonto dell’ora più fredda, lascerà la scena sconfitto, volgerò lo sguardo al salice in fondo al sentiero, e non mi stupirò nel vedere una fune che pende dai rami. Cadrà altra polvere, e non sarà mai troppo arida la vostra sete, inizierò ad apprezzare la mia diversità, quando vi inchinerete alle cianfrusaglie del rigattiere, senza un solco di vergogna sul vostro viso. Voglio poter dire di non aver bisogno di voi adesso, logori come siete.

Giò

Charlie il vagabondo

Si cammina, e non ci si accorge di molto. Non ci si rende conto di cosa viene lasciato alle spalle, di cosa si perde, di cosa si vince. Si cammina, tanto per camminare. Perchè non si può fare altro, perchè chi si ferma è perduto. Io però un giorno mi fermai, iniziai a ricordare mio padre, la sua vita, quello che era stato. In breve, ebbi paura. Il tempo che mi era scivolato dalle mani, era perso per sempre. Cosa ne sarebbe stato di me? Fuori corso. Cosa ne sarebbe stato di me? Ho fallito. Cosa ne sarebbe stato di me? Disoccupato. Che cosa avrei potuto fare adesso? Avevo le tasche del cappotto bucate, un vecchio cappello tarlato e un wiskey freddo tra le mani. In fondo avevano sempre deciso per me, ed io decidevo per loro. E non mi ama la donna che amo, che danza sul manto di neve scura, maledetta opportunista bionda, odiosa puttana bruna. Nessuno ama un poveretto con le scarpe strette, si deride il vagabondo impazzito di collera. Si è alzata la marea, che non consola i martiri sfatti di tanti anni fa. Ho bruciato i libri, ho sposato la follia, la mente che viaggia, e viaggia. Morirò, con il wiskey, come un bastardo. Tutto il resto è inutile, per quel che ne so, ciò che rimane sono due metri di terra, e pisciate di cane. Un fallito, che deride i fallimenti, che deride il successo, non so bene, qualcosa non va. Camminavo, fingermi zoppo, fingermi pazzo. Però stavo bene con me stesso, non come gli altri che si spezzano la schiena, che rotolano in mari di carta straccia. Ironia del destino che si pulisce il culo con i lamenti di gentaglia triste. Ironia del fato che caga in spruzzi di leggera malinconia estiva. La depressione che non si cura di voi, che siete come foglie morte che cadono, che strisciano, che si sgretolano. Avete perso, con le sopracciglia rifinite, con la pelle abbronzata, con le mani pulite, con le cravatte firmate. Io posso rallegrarmi del puzzo di carogna vicino il mio giaciglio, rido ancora una volta, del disprezzo che mi si sputa addosso. Chi disprezza vuol comprare, nuove vene da incidere per un amore troppo vecchio, per le vertigini di questo vivere infame. Siete piu finti di me, mendicanti di tranquillità. Frustrazione familiare, è quello che vi resta. Folli, menzogneri, incapaci, guerrieri. Camminate anche per me, sudate anche per me, che già stavo sudando sotto il sole congelato di questo Inverno che non viene via.

Giò
Tenere crudeltà assassine è diciotto anni solo all'anagrafe.
Tenere crudeltà assassine è la nostra incapacità.
Tenere crudeltà assassine è la continua prostrante insoddisfazione.
Tenere crudeltà assassine è non saper mentire.
Tenere crudeltà assassine è l'eccesso il vomito il pianto e la morte.
Tenere crudeltà assassine è cecità.
Tenere crudeltà assassine è il nostro tempo che ferisce braccia e fianchi.
Tenere crudeltà assassine è una notte lunga e dura.
Tenere crudeltà assassine è una notte di fantasma, un buio di donna sensuale.
Tenere crudeltà assassine è la morte nel respiro.
Tenere crudeltà assassine è riconoscere la merda.
Tenere crudeltà assassine è sputarla in faccia a chi non vede.
Tenere crudeltà assassine è paura e tremore.
Tenere crudeltà assassine è un lungo giorno in replica.
Tenere crudeltà assassine è una vita sempre uguale.
Tenere crudeltà assassine è coscienza di mera sopravvivenza.
Tenere crudeltà assassine è la nausea la merda e la morte.
Tenere crudeltà assassine è tutto ciò che non guardate.