giovedì 7 ottobre 2010

Ho visto.

Ho visto.
Ho visto un vigile non conoscere i limiti stradali.
Ho visto due persone, l'una accanto all'altra, comunicare via etere.
Ho visto un chimico privo del suo laboratorio.
Ho visto una gallina covare un gatto.
Ho visto il dolce egoismo e la falsa meritocrazia.
Ho visto un uomo ammazzare sua nipote.

Bella storia, direte.

Ma io non ho inventato nulla.

Lussuria

I pensieri che disturbano i sogni proibiti
si impadroniscono della perversione
gioendo in futili lacrime
L'essenza scompare
e si tramuta in maliziosa carne da macello
Le suore illuminate mi maledicono
e salutandomi mi succhiano il fardello
Raggiungono così la perfezione
svolgendo un vero e proprio lavoro di cesello
Ma i loro sensi uccidono l'immaginazione
e benedicendo i loro squallidi orifizi
scorgono gli orizzonti della bellezza
Creando così nuove fonti di purezza
Senza più confondere la virilità con la stupidità
E sciogliendo nuovi principi di virtù
infettano gli istinti con la santità
Madre di false libertà

Non disprezzo l'indecenza
La venero come sorella
la cui sorte è la divina penitenza

Ma la mente occulta i cadaveri eccitati
e avvolto nell'arcobaleno
il mio ego diventa daltonico
Saturando la propria fantasia grigia

Forse mi congratulo con la vanità
Ma in fondo
non è bello ciò che è bello
Se il pensiero ha sempre la mediazione dell'uccello...

mercoledì 6 ottobre 2010

Ossigeno

Mi manca il respiro,

comincio a sentire la gola secca,

c'è aria viziata in questo posto,

viziata da una putrefazione millenaria.


Non credo vi sia modo di sfuggirle

ormai quest'aria è ovunque,

la gente nemmeno se ne accorge,

tant'è assuefatta da questo puzzo.


C'è addirittura chi

riesce a percepire quest'orrendo tanfo,

ma non fa nulla,

forse semplicemente per inerzia.


Nasciamo e cresciamo cosi,

avvelenati dal fetore di una morale

che siamo costretti a respirare,

e ritengo sia necessario

cambiare il nostro ossigeno.

Buon Viaggio

La bugia di quell'attimo
è data dalla firma
impressa su un biglietto di treno
con una penna stanca di scrivere.
Tosse d'inchiostro indelebile
mi ricordano che l'uomo che mi abbracciava
mi preparava alla sua morte.
Signore non mi lasciare tutto solo
Il piatto della bilancia
non potrà che pendere
dal lato che non voglio.
Esortano alla serena conquista.
Loro che fanno il girotondo
cantando filastrocche stupide.
Sappiamo tutti come.
Troppo magica l'aria
per pensare che sia vero.
Troppo magica
per pensare di potersi aggregare
così facilmente
e dimenticarti...
Ora non ti voglio assistere.
La tua morte vivente non mi serve.
Conquisto una serena magia
dimenticandoti.

BUON VIAGGIO

martedì 5 ottobre 2010

C'è dell'altro. Lo sapevo che andava a finire così.

Ero in strada. Camminavo e la città era bruna, come avvolta da una nebbia più scura e densa.
Non ricordo in che città fossi. Forse Bologna, ma posso dirlo solo da tutto quel bruno che riesco a ricordare. Forse Bologna, ma non riesco a dirlo con esattezza.
Mi trovavo presso una bancarella, di spalle alla strada. Avevo gli occhi calati sui libri e le mani tra di essi, sentii che qualcuno era dietro di me, mi guardava.
Mi voltai e la riconobbi. Era lei, i capelli castani avvolgevano il viso. Mi colpirono quegli occhi chiari, meno tristi dell'ultima volta, ma di una lucentezza che andava spegnendosi.
Mi sembrò invecchiata, nonostante fosse giovane, nonostante non era passato così tanto tempo dall'ultima volta che l'avevo vista, provando una sensazione simile a quella che provavo in quel momento. Non ricordo più cosa stesse accadendo intorno, eppure non è passato così tanto tempo, niente più esisteva comunque, più di quanto non esistesse già. Mi girai e i suoi occhi erano puntati su di me, con quello sguardo carico di un amore senza speranza, consapevole della sua impossibilità, e quindi più puro. Io abbassai lo sguardo come avevo fatto tutte le altre volte di fronte a quello sguardo, senza riuscire a mentire riuscendo a reggere degli occhi così intensi senza che i miei contenessero altrettanto amore, mentendo allo stesso tempo restando lì, con lo sguardo sul selciato.
"Non mi riconosci?", mi disse sorridendo, con un tono di rimprovero. Fui sorpreso da quella domanda, perchè non era passato così tanto tempo dall'ultima volta e non scherzava lei, davvero riusciva a pensare che, nonostante tutto, non riuscissi a riconoscerla. Davvero si era convinta di essermi così indifferente da essere cancellata dai miei ricordi.
La guardai e sorrisi, "Come stai?" dissi, poi abbassai lo sguardo e tre le sue braccia vidi un bambino. Aveva gli occhi grandi e neri, i capelli scuri, e mi somigliava, somigliava a me.
Mi sorrise, lo guardò, e io capii che si trattava di mio figlio. Non fu lei a dirmelo, e io non domandai, ma sapevo, ero convinto del fatto che quel bambino fosse mio figlio, malgrado tutto, malgrado non avessi mai fatto l'amore con lei. Quel bambino mi guardava, guardava suo padre, ed io non riuscivo a capire se volergli bene o andarmene, andarmene per sempre senza poterlo vedere mai più.
Fui sicuro del fatto che fosse mio figlio quando lei me lo porse, senza parlare. Io allora lo presi in braccio, impacciato, ed era caldo e tenero. Io non riuscivo a tenerlo, e fui preso da un forte imbarazzo quando cominciò a scalpitare, e poi a piangere guardando la madre, perchè intuiva la mia lontananza e il mio disagio. Io lo guardavo tenendolo tra le braccia, cercando di non farlo cadere, ma non sapevo cosa fare, se darlo a lei e andarmene di corsa evitando ogni saluto o sedermi da qualche parte e cercare di calmarlo tenendolo vicino a me e parlandogli piano all'orecchio, cosa che sapevo mi sarebbe riuscita. Ma non riuscivo a muovermi e continuavo a stringere quell'esserino scuro, finchè lei, conoscendomi ormai meglio di quanto mi conoscessi io, me lo tolse tra le braccia. Lui smise di piangere, ma mi guardava come se avesse gradito un impegno maggiore da parte mia.
Lei però mi prese per mano e cominciammo a camminare, avvolti da quei caldi banchi di nebbia bruna e densa. Io tenevo appena la sua mano, la sua mano era fredda, e avrei voluto riuscire a stringerla e scaldarla, ma ogni volta che provavo a stringere pensavo che forse sarebbe stato meglio non farlo. Lei camminava al mio fianco come quella volta a Napoli, guardandomi come se fossi un qualcosa di impossibile da stringere, con gli occhi felici, perchè almeno per quel momento riusciva a tenermi per mano senza lasciarmi scappare.
Mentre camminavo continuavo a guardare quel bambino di cui non sapevo nemmeno il nome, e da come ricordo provavo quella stessa consueta sensazione, quella voglia di liberarmi senza poterci riuscire. Lei non parlava e io pensavo che forse avremmo potuto formare una famiglia, dare una casa a quel bambino, avrei potuto trovare un lavoro, e pensavo che lei era una delle poche donne che fossero riuscite davvero a capirmi, lo pensavo spesso questo, senza però riuscire a decidermi a amarla, senza riuscirci. Pensavo spesso che era molto stupido questo ingenuo cercare una persona che riesca a comprenderci, ad allontanare come per magia tutta quella solitudine, e una volta trovata essere costretti ad allontanarla.
Io avevo avuto il coraggio di allontanare l'unica persona che fosse riuscita ad amarmi, proprio io che non ho fatto altro che cercare amore, da quando ho aperto gli occhi fino ad ora. Ora non cerco più nulla. Tranne di notte, quando in sogno cerco e trovo ragazze dagli occhi dolci capaci di amarmi e stringermi e rendermi felice di volare su un aereo di cartapesta, pronto a cadere. Ma mi è sempre capitato questo, anche da piccolo riuscivo solo in sogno a trovare ciò che avrei voluto, ma ancora speravo, allora, che le mie speranze non potessero essere soddisfatte solamente da un sogno destinato a finire, a sfumare tristemente in un altro giorno. Dall'ultima volta che l'avevo vista avevo capito che i miei sogni sarebbero rimasti nel posto che gli spettava, nel cassetto, a marcire insieme a me. Sapevo che lei riusciva a sentire ciò che pensavo, lo capivo dal modo in cui stava zitta, come se stesse aspettando che io smettessi di pensare, prima di scoprirsi di nuovo, e di fronte alla mia immobilità, tentare di trascinarmi con sé, sperando nella forza di un amore che lei sentiva grande, ed io riuscivo solo a vedere da lontano, innocuo. Intanto camminavamo, ma nei miei ricordi eravamo sempre nello stesso posto, forse per colpa della nebbia.
Ero quasi sul punto di lanciarmi, e accettare il suo amore sperando che riuscisse a far nascere un sentimento che sempre più sospettavo di non riuscire a provare.
Allora lei, forse continuando a sapere, disse "Perchè non vieni in Sicilia, anche solo qualche volta, o magari... non so, potresti venire a vedere il bambino, e vedere la mia casa, vivo da sola, ora.". Sapevo che l'avrebbe fatto, e come al solito non riuscii ad accettare, non riuscii ad accettarla, ad accettarli stavolta.
Del resto era sempre andata così, ogni volta che in passato aveva cercato di rendermi vivo, di farmi agire, non ero riuscito ad aprire le braccia e accettarla, non ero riuscito a non essere onesto con me stesso e con lei, mentendo. Anche quando, come questa volta, ero sul punto di decidermi, di forzare una decisione per soddisfare il suo amore sperando di amare a mia volta, di riflesso. Ogni volta capivo di non poter essere uno specchio. Piuttosto mi sentivo un selciato coperto di scalfiture.
Mentii, da codardo. "Non posso permettermi il viaggio, non lavoro, e i miei hanno qualche difficoltà, e non me la sento di chiedere soldi a loro. Mi dispiace.".
Così dissi, sentendomi ridicolo di fronte alla meschinità di ciò che avevo detto, di ciò che ero stato costretto a dire, sapendo che per lei era uguale, che lei conosceva i miei mezzucci per cercare di non ferirla, prendendola per stupida, come una qualsiasi.
Notai che sorrise, stringendo il bambino, continuando a camminare.
Ricordo che non parlammo per molto tempo, io mi vergognavo e evitavo di guardarli, ma sapevo cha passeggiavano ancora al mio fianco. Non li guardavo, ma sentivo che lei continuava a sorridere, rassegnata, sapendo ormai che nemmeno un bambino che sapevo mio sarebbe riuscito a scalfirmi davvero.
Improvvisamente la nebbia di diradò, a me sembrava che fosse passato molto tempo, ma non ne sono sicuro. Ora riuscivo a vedere bene ciò che c'era intorno. Eravamo in una stradina come ce ne sono a Napoli, umida e isolata. Aveva piovuto forse.
Io mi fermai e la guardai mentre faceva qualche passo in avanti, prima di fermarsi a sua volta.
Restò immobile per qualche istante. Poi non riuscii a vedere bene i suoi movimenti, vidi solo il bambino, che scivolando sul selciato come una palla da bowling, andava a battere la testa contro un muro. Mi sembrò di riuscire a vedere, da lontano, i suoi occhi vitrei. i suoi occhi rimasero aperti e vitrei, io ebbi paura, e intorno non c'era nemmeno una traccia di sangue.
Io ero sicuro che fosse morto.
Lei corse verso il bambino. Io inorridii. Lei si fermò, senza raccoglierlo, lasciandolo a terra. Immobile. Lo guardò e si voltò verso di me, guardandomi negli occhi, mentre piangeva e rideva, come se il corpo fosse percorso da una perversa soddisfazione.
"Sei contento ora?" disse, senza alzare la voce, "Va bene così? Sei contento, bastardo?"

In seguito lei non c'era più. Non riuscivo più a vederla e non sapevo dove fossi. Tutto mi sembrava grigio, intorno.
Ma tutto ciò che vedevo, dall'alto, così lo ricordo, era il bambino, in un qualcosa che sembrava un' incubatrice.
Riuscivo a vedere il bambino, dall'alto, con gli occhi ancora aperti e vitrei.
Morto.
Sentivo che lei era lontana, viva come me, e sapevo che rideva e piangeva.
Continuava a ridere e a piangere.
Mi sembrava di riuscire a sentirla mentre rideva, e sottovoce piangeva.